Che significa nel 2015 fare informazione nel Mezzogiorno di Stefano
Maria Toma
GIORNALISTA. E ANCHE IMPRENDITORE
Meglio fare il giornalista che lavorare. Bei tempi, quelli che
consegnavano all’immaginario ironico e scherzoso una professione sospesa fra
l’eterno giramondo, la incongrua professionalità e la scarsa propensione alle
regole e agli orari, per non dire a una stanzialità allora (e forse anche oggi)
fiera nemica della cultura ciabattona e pantofolaia.
Per la verità non vi corrispondeva più di tanto, nemmeno allora, ai
tempi in cui la “diversità” del giornalista trasudava dannunzianesimo e pagine
a quattro mani fra Tom Antongini e Liala. I primi ad averla inventata quella
battuta e a gloriarsene erano proprio loro, i giornalisti in vena ieri ma ancor
più oggi di “visibilità” e di “immagine”.
Ora stiamo col 2015 e con i giovani
che nel Mezzogiorno - e così entriamo in argomento - intendono
abbracciare questo mestiere. Innanzi tutto, un avvertimento: è un mestiere
perché qualcuno (cioè l’editore) provvede a passare il relativo stipendio. E’
una professione in quanto nel suo farsi sottintende una autonomia di pensiero, di libertà e di onestà
(lasciamo nell’utopia l’obiettività che non è di questo mondo). Di fatto
l’unica attività di lavoro sospesa fra l’essere dipendenti e il non esserlo
affatto, almeno ideologicamente, nel dispiegare un’attività di pubblico
interesse. Il cui duplice diritto (del cittadino a essere informato e del
giornalista a informare) è sancito dalla nostra Costituzione.
In meno di mezzo secolo su questo lavoro si sono abbattute due
rivoluzioni. La prima è collegata a come si compila e si stampa un giornale.
Dalla stampa “a caldo” con la linotype si è passati al “freddo” del computer,
del “desk top publishing”, letteralmente editoria da scrivania. La seconda
rivoluzione ha a che fare con quella definizione che si chiama “on line”, in
linea di tempo e spazio. Ci riferiamo al mondo “virtuale” che “naviga” sempre
più nel reale, attraverso la televisione digitale, interattiva e soprattutto
attraverso Internet. Insomma si fanno e si disfano giornali cui la carta è
completamente sconosciuta. Gli articoli, le foto, le vignette, gli schemi
nascono e muoiono nel computer e dal computer vengono “consumati” da un nuovo
popolo di lettori (o di fruitori?) sempre più vasto e senza alcun confine di
spazio e di tempo. Anche questo nuovissimo modo di fare informazione potrebbe
essere annoverato nella “new economy”, cioè nella nuova logica di lavorare e di
procurare profitto sfuggendo ai settori classici come l’industria,
l’artigianato e l’agricoltura, fino a pochi anni addietro, i tre filoni
tradizionali su cui fluivano fiumi di iniziative, di investimenti, di
occupazione, di catene di montaggio e di prodotti fisicamente individuabili,
reali.
Ora se vogliamo metterci nei panni di un giovane, diplomato, meglio se
laureato e con un paio di lingue da usare correntemente e con una buona
dimestichezza con computer e affini, deciso di dare ascolto alla gente
comunicando con essa, ci troveremo subito davanti a uno scenario seguente.
Giornali, quotidiani e periodici, che la gente si ostina a non leggere, o a
leggere poco, soprattutto nel Mezzogiorno, solo due su dieci, in Europa
addirittura la metà. Difficile per l’aspirante giornalista trovarvi posto fra
l’alto livello della disoccupazione di diplomati e laureati e l’offerta che si
restringe a imbuto per asfissia di mercato. Ancora più difficile farsi
retribuire per il lavoro svolto dentro e fuori della redazione.
Ammesso che la cosa vada per il meglio (il padre sarà un notabile o un
politico o egli stesso un giornalista importante o lo zio un illustre prelato e
giù di questo passo lungo le antiche
condotte del nepotismo locale), il nostro giovane potrà assunto in uno dei buoni quotidiani
della regione. Oppure in qualche salda emittente radiotelevisiva. Qui, sempre
che la fortuna o i magnifici lombi continuino a essergli provvidi, il giovane trascorrerà
18 mesi di noviziato per apprendere dal vivo il mestiere, essendone anche
retribuito. Allo scadere dell’anno e mezzo dovrà superare l’esame di idoneità
professionale a Roma, scritti e orali.
Fino ad alcuni anni or sono la redazione centrale e i suoi uffici
periferici (collegati con le centrali-fonte come questura, carabinieri,
ospedali, ecc.) erano l’unico salvacondotto per imparare il mestiere. Mestiere
che ha sempre rifiutato le teorizzazioni astratte e le “alterità” territoriali,
tipo scuole o banchi. Poi anche il binomio inchiostro e piombo ha dovuto
soccombere.
Ora il giovane che ne sia in grado (per titoli ma anche per denaro da
investirvi e per la frequentazione) può,
in alternativa alla redazione, prepararsi agli esami professionali
frequentando una delle nove scuole sparse per l’Italia riconosciute dall’Ordine
dei Giornalisti. Se il nostro giovane seguita a trovarsi dalla parte giusta
della vita, verrà promosso giornalista professionista. (Ah, dimenticavo di
dire; che se non si vuole prendere i voti - e solo quelli - della clausura giornalistica, il giovane potrà stare con un
piede in due staffe, come si dice. Continuare a svolgere un altro mestiere, che
so, medico, informatico, laureato breve, pubblicitario, e darsi anche
all’informazione scritta o parlata, magari negli argomenti di propria
competenza professionale.)
Ma che cosa rimane a questo giovane se tutte le condizioni fin qui
descritte non gli si addicono? Assai poco, o nulla. Cambiare idea. E’ il
suggerimento più saggio e il più lungimirante. Oppure prescrivergli un suicidio
shackerizzato con tanta abdicazione, volontà e lavoro gratuito. Con questi
tre...boomerang in pugno, il nostro eroe potrà sfidare anche le avversità più
coriacee.
Oppure…oppure può - ed è questo il secondo suggerimento “on line” -
guardarsi in giro e grazie a Internet e forse a qualche compagno d’avventura,
“costruire” un giornale telematico, diffonderlo in giro, compilare e inviare,
che bello!, senza i soldi (molti) per stampare e distribuire e con la realtà
del tutto gratuita di poter arrivare dovunque, senza dover pagare balzelli di
denaro, di tempo e di spazio. Sfiorando e oltrepassando questa soglia, è chiaro
che l’informazione si attribuisce molte altre spettanze, compresa quella
dell’imprenditore-editore. E compreso un definitivo e attualissimo addio al
posto fisso.
Il futuro è alle nostre spalle. E’ un motto di spirito, certo, ma in
questo caso, trova alcuni fondamenti nella realtà. Ai primi dell’800 i giornali
potevano essere fatti da una sola persona, compilazione e stampa compresi.
Erano i tempi in cui la facevano da padroni con la testa nei caratteri da
stampa eroici e remoti precursori di un futuro aziendalistico delle
moderne case editrici e dei grandi
network televisivi. Con il villaggio globale ridotto ad una piazza di paese, e
di cui Internet è insieme vestale, sponsor e ...prostituta, il futuro non costa
nulla, se non qualche idea.
Ed allora sotto. Per una volta almeno il Mezzogiorno potrebbe avere
alleate quelle doti innate di fantasia e
di creatività, che, a lungo neglette nell’universo tecnologizzato e
“ragionierizzato”, stanno per riaffidargli una nuova cittadinanza.
Certo, però, che non tutto sarà Internet o grande informazione scritta.
Emittenti televisive, radiofoniche e quotidiani seguiteranno a svolgere il
proprio compito. Può darsi che ci sia una certa moria. E che di giornali ne
sopravvivano pochi, magari i più importanti. Tanto che, come sostiene Indro
Montanelli, il più ispirato guru di questo mestiere, domani essi saranno una
“merce rara, come i libri, i congiuntivi e le posate d’argento”.
Può darsi però - ed è questa la nostra tesi - che ci sia, dopo la
grande stampa, tv e Internet, un quarto spazio per i giovani meridionali “unti”
dal bernoccolo del giornalismo. E’ proprio la logica del villaggio, ma questa
volta tornato all’origine semantica
di piazza di paese o di di
quartiere a dimensione d’uomo, dove si racconta quel che interessa
agli abitanti, e solo questo, notizie di servizio, dunque, cioè di
quelle che a saperle migliorano la qualità della vita, o informazioni che
riguardano tutti da vicino, o campagne di critica e di pungolo perchè autorità
e istituzioni facciano meglio il proprio dovere a favore della comunità. E così di seguito. D’altronde, negli ultimi
vent’anni il fenomeno delle televisioni private si è potuto espandere e
consolidare proprio grazie alla logica della notizia “locale” che interessa noi
e il vicino di casa. Il messaggio è ben
chiaro. Ed è la notizia che fa il “media” e non viceversa, come è ormai
degenerato su quelli generalistici e universalistici. Piccolo è bello, anche
nel giornale e nelle tv.
E dove si comprende che tutto si mette a soqquadro, tutto torna in
discussione, ogni cosa ha bisogno di una sua ricollocazione. Non compaiono
punti di riferimento definitivi, immutabili. La stessa professione giornalistica
si avvia ad una profonda mutazione. Se ne altereranno i contorni con la procura
ad altre deontologie, cadranno i paletti contrattuali. Questo è lo scenario che
i giornalisti italiani stanno vivendo nella primavera 2015. Nuove tecnologie
implicano di riscrivere patti e associazioni, sovrastrutture e strutture, fino
forse a nuove deontologie. Questa è la sfida che vede impegnati vecchi e nuovi
giornalisti. Con la differenza che di questi ultimi le novità sono genitori e
non prole.
Stefano Maria Toma
@stefanomtoma
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